“UN UOMO PERICOLOSO”: LA STORIA DI SEVERINO DI GIOVANNI
Il piantone apre la cella, ed entra.
Dietro di lui guardie armate guardano torve il detenuto che, seduto sulla branda, fissa il muro.
”Il tuo caffè, Severino” fa la guardia, porgendogli una tazzina sbeccata.
Il detenuto la prende, senza degnare di uno sguardo l’interlocutore, e la avvicina alle labbra.
Dopo il primo sorso fa una smorfia di disgusto, e si volta verso i suoi carcerieri “Cos’è questa schifezza? È amarissimo. Avevo chiesto un caffè molto dolce”
Dal fondo giunge la voce sprezzante di un guardiano “Fossi in te non farei troppo lo schizzinoso, Di Giovanni. Questo sarà l’ultimo caffè della tua vita”
Il detenuto, Severino Di Giovanni, sogghigna impercettibilmente ed esclama: “Non importa, fa niente. Sarà per la prossima volta”
Era arrivato in Argentina 8 anni prima, nel 1922, insieme alla moglie Teresa e i tre figli.
A differenza di tanti italiani, questo giovane tipografo, nato a Chieti il 17 marzo 1901, non cercava fortune nel nuovo mondo: era sempre stato povero, aveva subìto le ingiustizie dei padroni, e sapeva che finché l’anarchia non avrebbe trionfato in tutto il mondo sarebbe sempre stato trattato alla stregua di un cane rabbioso.
No, lui emigrava solo per poter respirare, per liberarsi dalla morsa di polizia e fascisti che negli ultimi tempi gli rendevano la vita - e il lavoro- impossibile.
Buenos Aires era tutto un brulichìo di tagliagole, malfattori, esuli e radicali di varie passioni politiche e Severino, come se nulla fosse cambiato dall’Italia, in un lampo si era trovato al centro di questo formicaio a fare propaganda anarchica insieme ad altri italiani.
Qui aveva incontrato un suo coetaneo, Paulino Scarfò, che gli aveva presentato la sua sorellina quindicenne, America.
Una tipica soap- opera latinoamericana: il giovane povero e ribelle si innamora di una vivace adolescente - dopo qualche tempo anche lei ricambia i sentimenti - i genitori di lei sono contrari- grazie al fratello e agli amici e a rocambolesche avventure riescono ad andare ad abitare assieme - la moglie e i figli di lui spariscono dalla sceneggiatura- tutti vivono felici e contenti nel nuovo mondo.
Sarebbe uno splendido lieto fine per un parlamentare del Partito Democratico, per cui la vita è solo sopravvivere e farsi inglobare dal mondo che va, peccato che l’anarchia di Severino è furiosa.
Farsi andare bene le cose è un privilegio che Di Giovanni non possiede: le ristrettezze della sua infanzia, l’adolescenza precaria durante la guerra, le violenze fasciste subìte in Italia e la notizia dell’assassinio di Matteotti bussano alla porta, ed egli non può che rispondere con il dito sul grilletto.
La sera del 6 giugno 1925, al teatro Colòn di Buenos Aires, si celebra il 25esimo anniversario dell’incoronazione di Vittorio Emanuele III, alla presenza del Presidente Argentino Alvar e dell’ambasciatore fascista Luigi Aldrovandi Marescotti, conte di Viano. Improvvisamente dagli spalti si leva un urlo: “ASSASSINI! LADRI! Viva Matteotti, abbasso il fascismo!” cui segue una pioggia di volantini.
Marescotti impallidisce -la sua bella festa è rovinata, cosa dirà al Duce?- raccoglie un volantino nel parapiglia generale, e non fa in tempo neanche a leggerlo che vede un giovane, biondo e vestito di nero- gridarlo mentre mena fendenti alle camicie nere di scorta all’ambasciatore:
È Severino Di Giovanni il ragazzo che recita il volantino e, dopo una breve rissa, viene arrestato insieme ai suoi compagni, fra cui Paulino Scarfò e l’anarchico calabrese Francesco Barbieri, detto “Chico il professore” per la sua esperienza con gli esplosivi.
Usciti di galera dopo poche settimane i tre, insieme a un piccolo gruppo di “illegalisti” (ovvero anarchici che ritengono l’azione diretta illegale un momento fondamentale della azione politica), decidono di fondare un giornale, “Culmine”.
Scopo della rivista è propagandare un anarchismo violento, senza compromessi, e al contempo promuovere la lotta proletaria e antifascista fra i lavoratori italiani.
Per autofinanziarsi optano per un mezzo coerente con le loro idee: rapine ovunque.
Dopo alcuni colpi andati a segno, inseguito dalla polizia di tutta l’Argentina, Di Giovanni decide di entrare in clandestinità.
Da quel momento, le sue azioni si fanno di una violenza tale che perfino il mondo anarchico ne rimarrà scosso.
Il 16 maggio 1926, alle 23, una potente bomba sgretola la porta dell'Ambasciata americana, senza provocare vittime.
Il 22 luglio del 1927 viene fatto esplodere il monumento a Washington e la sede di una concessionaria Ford.
L'8 agosto viene colpito il tribunale e, la settimana successiva, è la volta della casa del commissario di polizia Eduardo Santiago, nel quartiere di Almagro.
Negli Stati Uniti, intanto, gli anarchici Sacco e Vanzetti vengono giustiziati e ciò alimenta la convinzione di Severino e i suoi compagni di dover essere ancora più decisi nell’attacco.
Il 24 dicembre del 27 una bomba esplode alla City Bank, causando due morti e 23 feriti.
Il 23 maggio 1928 Severino intende portare una bomba al Consolato italiano di Buenos Aires, dove sono riuniti i migliori uomini di Mussolini in Argentina, arrivare fino alla stanza del Console Italo Capanni chiuderlo dentro e lasciare che l'ordigno esploda. Ma le cose non vanno come previsto e alla fine la bomba viene lasciata giusto nell'atrio accanto alle scale- 9 morti e 34 feriti gravi. Un’ora dopo Di Giovanni piazza un'altra bomba, rimasta inesplosa, nella farmacia del dr. Benjamin Mastronardi, presidente del Comitato Fascista.
Non solo bombe, per Di Giovanni: quell’anno uccide un sospetto delatore e sfigura Juan Velar, vice-commissario della polizia di Rosario e noto torturatore.
(vignetta di “Culmine, 1929)
Il mondo anarchico non illegalista comincia a rabbrividire di fronte a tanto sangue e sulle riviste libertarie cominciano a uscire articoli di condanna alle azioni di Di Giovanni.
”La bomba del Consolato Italiano non poteva essere più spaventosa. Fu atroce. Qualunque sia stata l'intenzione non si può sottrarsi alla terribile realtà. L'attentato del 23 maggio 1928 fu un carnaio d'innocenti” scrive la rivista “L’Allarme”, e l’anno dopo il foglio “La Protesta” arriva addirittura ad accusare pubblicamente il gruppo legato a “Culmine”, giudicandoli “agenti provocatori al soldo dei fascisti”.
L’autore è Emilio López Arango, direttore del giornale, che pochi mesi dopo, il 29 ottobre 929, viene trovato assassinato sull’uscio di casa.
In tanti sospettano di Severino, che nega tutte le accuse, piano piano lui e il suo gruppo si trovano isolati.
Da lì all’arresto il passo è breve.
Il 29 gennaio 1931 la tipografia clandestina di Severino viene circondata dalla polizia.
Severino, invece di arrendersi, decide di ottemperare a ciò che aveva dichiarato su in una lettera due anni prima:
”Sconfitto? No, e non lo sarò neanche quando, alla fine della strada, mi ritroverò senza via d’uscita davanti al muro della morte”
Aprono il fuoco sugli sbirri, uccidendone due, e cercano di aprirsi una via di fuga.
La polizia scarica una tempesta di piombo, colpendo una passante ignara che morirà sul colpo, mentre Di Giovanni sale su un tetto che viene subito circondato.
Sentendosi perduto, tenta invano il suicidio gettandosi nel vuoto. Dopo una caduta di dieci metri, però, si ritrova vivo e continua la sua fuga prima di essere raggiunto da un colpo di pistola.
Ormai moribondo Severino viene fermato dalla polizia e condotto velocemente in ospedale.
Tratto in arresto, la sua condanna è la morte.
(Fucilazione di Severino Di Giovanni, 1 febbraio 1931)
Severino sta ancora guardando il muro quando vengono a prenderlo, in bocca ha ancora il sapore del caffè amaro.
Lo portano davanti al plotone, mente la folla di spettatori - borghesi e fascisti giunti apposta per vedere la morte di colui che per qualche anno li aveva terrorizzati- lo schernisce. “Non sono più i tempi del Teatro Colon eh, Severino?” sembrano dire “Noi siamo vivi, tu presto sarai morto, il mondo è ancora nostro”.
Ma Severino è calmo, laconico, mentre lo legano alla sedia.
Si guarda intorno, e ripensa al suo ultimo messaggio, scritto in carcere poche ore prima:
”Non cercavo l’affermazione sociale, né una vita agiata, né una vita tranquilla.
Vivere nella monotonia le ore ammuffite del sottostandard, del rassegnato, del comodo, della convenienza, non è vivere, è solo vegetare e trasportare in maniera itinerante una massa di carne e ossa. Ho affrontato la società con le sue stesse armi, senza abbassare la testa, per questo mi considerano un uomo pericoloso. E lo sono.”
I militari alzano i fucili, prendono la mira, il dito sul grilletto.
Severino grida “Viva l’anarchia”.