IN FIERO TACERE : L’ANTIFASCISMO TOTALE DI GIANNA
Questa storia è certamente la più difficile da raccontare.
Lo è perché presta il fianco alla lettura revisionista delle destre, e non solo, che mira a dipingere i partigiani come corrotti, ladri e assassini.
Ciò che invece io mi/vi propongo, è quello di delineare una figura dedita a una totale abnegazione alla causa antifascista e comunista, tale da pagarne il prezzo con la vita.
Lei è Giuseppina Tuissi, la partigiana “Gianna”.
LO SCIOPERO
”E come a Stalingrado
I nazisti son crollati
Alla Breda rossa in sciopero
I fascisti son scappati” (Stormy Six - La Fabbrica)
Il marzo 1943 è caratterizzato da una ondata di scioperi nelle fabbriche che, da Torino, si estendono in tutto il Nord Italia. La parola d’ordine è “Basta fascismo, no alla guerra” e gli operai in lotta riescono a mettere in scacco i gerarchi e la polizia, in quella che sarà la prima grande spallata al regime.
Anche la Borletti di Milano, storica azienda di produzione di orologi e macchine da cucire riconvertita a industria bellica, entra in sciopero il 25 marzo.
Le prime a incrociare le braccia sono le donne del reparto spolette che cominciano un corteo dentro la fabbrica al grido di: “Basta con la miseria, scioperiamo tutti!”
Fra queste operaie in sciopero, che durerà per 5 giorni, c’è una giovane operaia comunista appena ventenne, Giuseppina.
Nata ad Abbiategrasso da madre contadina e padre fabbro, cresce a Baggio dove comincia a lavorare ancora minorenne.
L’approdo al socialismo è inevitabile: a dispetto della vulgata odierna, che vorrebbe il fascismo come un fatto “popolare”, il sostegno a Mussolini era prevalentemente borghese e aristocratico, mentre chi svolgeva lavori più umili era solitamente antifascista.
I GAP
”Vestiti in fretta e corri da chi sai
Fiori recisi aspettano un nome
Lo trovi vestito di sangue e di neve
Perché piangi compagna?
Il suo inverno è finito il nostro no” (Senza Sicura - Non Dimenticheremo)
Giuseppina si radicalizza in fabbrica e, per via delle sue intemperanze, viene trasferita all’ospedale militare di Baggio, per il più innocuo e “patriottico” lavoro di inserviente.
Intanto, i suoi fratelli si uniscono ai GAP, e le fanno conoscere il gappista Gianni Alippi, nome di battaglia "Galippo", con cui si fidanza per poi cominciare una intensa attività di fiancheggiamento alle formazioni partigiane, sottraendo dall’ospedale licenze e lasciapassare che consegnava poi ai combattenti.
Il 30 agosto 1944, Galippo viene arrestato dalle squadracce della Legione Ettore Muti, corpo di polizia fascista noto per rastrellamenti ed eccidi compresa la strage di Piazzale Loreto dove verranno giustiziati 15 partigiani.
Il giovane viene torturato per tutto il giorno e poi, al suo rifiuto di rivelare le sedi gappiste, fucilato a ridosso del muro di via Tibaldi insieme a tre compagni.
Giuseppina, ricercata anch’essa, decide che è il momento di entrare in clandestinità, viene quindi mandata dal Partito Comunista nel comasco, dove operano le Brigate d’assalto Garibaldi del Lario.
Entrata nella 52° brigata sotto il comando di Luigi Pietro Canali, nome di battaglia “Neri”, in ricordo del fidanzato martire prende il nome di “Gianna”.
DAI MONTI ALLE PRIGIONI
"Se a fronte di tanto penare
Madre, vedessi tua figlia tacere"
Pensava, "non ti stupiresti più
Che tra il ghiaccio sboccia il bucaneve" (Filippo Andreani- In Fiero Tacere)
(Il capitano Neri)
E l’ardente passione politica che Neri e Gianna condividono fra battaglie e fughe sui sentieri de monti comaschi, presto si trasforma in amore, ma un amore che non ha tempo di lasciar posto alla dolcezza.
Ed è così che, malgrado la letteratura in merito abbia romanzato il loro legame, quello fra i due partigiani rimane un rapporto di intensa collaborazione militante: non intendono fuggire insieme, nascondersi fino alla fine della guerra o riparare in Svizzera, il loro obiettivo è lottare in prima linea contro fascisti e invasori tedeschi, a costo della vita.
La notte del 6 gennaio 1945 la Brigata Nera scopre nel sonno Gianna e Neri, che vengono immediatamente arrestati.
In carcere a Como comincia il Calvario di Gianna.
I primi giorni viene denudata e lasciata al freddo, fra i lazzi e gli apprezzamenti viscidi delle guardie. Arrivano due uomini: uno la lega, l’altro ha una frusta in mano.
”Allora, vuoi parlare? Dove si nascondono i tuoi compagni”
Gianna tace, la frusta schiocca una, due, dieci, cinquanta volta.
Viene lasciata in un bagno di sangue.
Nei giorni successivi, gli aguzzini la svegliano con getti di acqua gelata, per poi darsi a una mattanza di calci e pugni.
Gianna continua a tacere.
Una notte, viene rinchiusa in un armadio insieme a un ratto reso folle di paura, che comincia a morderla e a graffiarla, finché ore e ore dopo lei pronuncia le prime parole:
”Vi prego…basta”
Aprono l’armadio, il topo schizza via: “Allora, ci dai qualche nome?”
Gianna rimane in silenzio. Altri calci, pugni, sevizie.
Gianna viene prelevata, ustionata e infine gettata nuda nella neve.
Dopo 23 giorni di torture continue, ella rompe il silenzio, comincia a parlare.
Dicendo il falso.
Il tenente Adolfo Belgeri della 11ª Brigata nera dirà in merito:
”La signorina Giuseppina Tuissi (alias Gianna), per ciò che mi consta, mantenne sempre un comportamento ineccepibile. venni a sapere da Cavatore che, sottoposta a torture da Mariani, disse due indirizzi di Milano che risultarono falsi”
Viene spostata in una caserma di Monza occupata dalle SS, e poi messa su un convoglio per essere deportata ad Auschwitz.
Il 23 marzo 1945, a Rovereto, il capitano Vernig della Gestapo vede questa giovane scheletrica, emaciata, piena di lividi e ferite.
Non sappiamo se si impietosisce o piuttosto spera così di catturare Neri, che nel frattempo era evaso dal carcere, fatto sta che la libera.
DAI TRIBUNALI AI MONTI
“La notte era chiara
La luna un grande lume
Eurialo e Niso uscirono
Dal campo verso il fiume” (Gang - Eurialo e Niso)
Ora, qui sta forse il fulcro dell’articolo e il perché ho deciso di intitolarlo “L’antifascismo totale”.
Gianna sa che sul suo capo pende l’accusa di “tradimento”. Poco importa se ha passato due mesi di prigionia di cui uno di torture costanti, e che la sua confessione è stata volutamente mendace: le regole, in tempo di guerra, sono durissime, e chiunque parli con i fascisti è passabile di una condanna a morte.
Gianna sa tutto questo, ma non scappa. Non si rifugia in Svizzera, dove tanti compagni con gli stessi capi d’accusa sono riparati né tradisce i suoi ideali passando dalla parte del nemico.
Si presenta spontaneamente davanti al Tribunale del popolo, con un resoconto dettagliato dei fatti e la piena ammissione delle sue responsabilità, insieme a Neri che a testa alta affronta lo stesso processo.
Vengono condannati a morte ma, in attesa che la sentenza venga eseguita, vengono liberati da alcuni partigiani che credono nella loro buona fede.
I due, invece di nascondersi, ricercati sia dal Tribunale Partigiano che dalle Brigate Nere, decidono di tornare a combattere il fascismo sui monti, insieme ai vecchi compagni della 52esima che li accolgono a braccia aperte, incuranti delle accuse a loro rivolte.
Con il destino segnato, Gianna e Neri riprendono la loro lotta armata per il comunismo finché, il 26 aprile, la 52esima blocca un furgone a Dongo.
Sopra, travestito da soldato tedesco, c’è Mussolini, accompagnato da Claretta Petacci e ad alcuni fedelissimi, che tentavano di superare il confine italiano.
Due giorni dopo, ha termine la miserabile esistenza del “Duce”.
PER AMORE DI UN SOGNO
”A questa città d'acqua dolce
farò ritorno con il ghigno alle guance,
ma, pure se della vittoria
dovesse restarmi soltanto il disegno
sarò morto più degno.” (Filippo Andreani - Per Amore di un Sogno)
Il resto è noto.
La Liberazione dal fascismo, solo da quello, è compiuta, ed è quindi tempo di affrontare nuovamente le sue responsabilità.
Neri viene giustiziato il 6 maggio 1945, a Gianna concedono la grazia.
Ma ella non tollera che il suo compagno venga dipinto come un traditore, e comincia a fare pressioni sui partigiani perché venga riabilitato post-mortem.
Così scrive in una lettera a una amica:
”Anche quando si è forti come lo fui io nel passato certi colpi inferti contro la nostra volontà, contro i nostri ideali, quando ci si sente tacciati di tradimento, quando si vede morire il proprio compagno come un vile, mentre si sa che ha vissuto per un puro ideale, ci si sente oppressi e si desidera la morte”
Le sue rivendicazioni cominciano a spazientire i capi partigiani, e qui c’è purtroppo la prima mistificazione che fa la narrazione revisionista: si pensa che ella fosse venuta in uggia al PCI poiché minacciava di rivelare dove fosse finito “l’oro di Dongo”, ovvero quello trovato a Mussolini dopo la sua cattura, che Gianna aveva scrupolosamente catalogato in quei concitati momenti.
Bene, di questa minaccia non vi sono prove, mentre c’è ampia letteratura sulla mera volontà di far ottenere giustizia e verità per sé e per Neri.
Il 23 giugno Gianna è a Como, in visita ad alcuni partigiani.
La intercettano due uomini in moto, poi due spari e un tonfo nel lago.
Muore così, a 22 anni compiuti lo stesso giorno, Giuseppina Tuissi.
Questa storia può essere letta nella maniera patetica e vittimista delle destre e delle loro quinte colonne che vogliono sottolineare la “cattiveria” dei partigiani; al contempo, secondo me, è una testimonianza di come la Storia non si muova per imperativi categorici morali, e come però essa sia illuminata da alcuni esempi di volontà e abnegazione.
In una guerra, e nei momenti successivi ad essa, non ci si può aspettare una totale adesione a principi astratti di umanità, e i comportamento dei tribunali partigiani è evidentemente di una durezza che rasenta la pura ingiustizia.
Eppure la stessa durezza, la stessa convinzione, è quella di Gianna, e nel suo caso l’ingiustizia si trasforma in una giustizia assoluta, in una sincerità e un coraggio totalizzanti.
Se confrontiamo la sua storia con quella di Mussolini, un ricco pagato prima dai britannici poi dai tedeschi che conclude la sua vita scappando travestito, non vi è dubbio quale delle due si ricopra di dignità. E forse qui sta il significato di tutto.
"Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.”
(Italo Calvino - Il Sentiero dei Nidi di Ragno)