“Girando e girando nella spirale che si allarga
il falco non può udire il falconiere;
le cose cadono a pezzi; il centro non regge più;”
(William Butler Yeats - Il Secondo Avvento)
Il celebre filosofo Mark Fisher, in “Realismo Capitalista”, utilizza una frase attribuita a Zizek: “È più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo”.
La catastrofe come dispositivo di controllo sociale per edificare lo stato di eccezione permanente e la conseguente totale mobilmachung (mobilitazione totale) è evidentemente uno dei metodi del dominio per appianare le contraddizioni, come del resto scrive il “Comitato Invisibile” in “Ai Nostri Amici”:
”Non va sottovalutata la frenesia dell’apocalisse, la sete di Armageddon da cui l’epoca è attraversata. La sua specifica pornografia esistenziale consiste nel trasmettere documentari d’anticipazione in cui si mostrano in immagini di sintesi le nubi di cavallette che nel 2075 si abbatteranno sui vigneti di Bordeaux e le orde di “migranti climatici” che prenderanno d’assalto le coste meridionali dell’Europa – quegli stessi che Frontex si sta già impegnando a decimare.
La novità è che stiamo vivendo un’epoca in cui l’apocalittica è stata integralmente assorbita dal Capitale e messa al suo servizio.”
C’è invece che ha interpretato l’Apocalisse come dato messianico/simbolico, ergo lo scontro finale fra la società delle merci e la comunità umana.
Impossibile in tal senso non citare il necessario “Apocalisse e Rivoluzione” di Giorgio Cesarano e Gianni Collu, pubblicato nell’ormai lontano 1973; secondo Cesarano, le contraddizioni insite nel capitalismo stanno preparando la sua fase ultimativa, e così la dialettica rivoluzionaria deve incalzare questo processo preparandosi al conflitto finale, da “socialismo o barbarie” a “socialismo o apocalisse”, non dissimile dagli svariati studi operati da Franco “Bifo” Berardi che ha indagato tale concetto sia come ricatto del capitale (“Futurabilità”, 2018) sia come avvento della società comunista (in senso libertario), unico argine al baratro liberista (“Il Secondo Avvento”, 2018).
Tutte queste suggestive letture dell’apocalisse sono valide e interessanti, eppure nella critica radicale occidentale ogni escatologia viene espunta dalla lente materialista con cui si determinano i processi storici: rovesciando Fisher, la crisi di egemonia del dominio genera l’immaginazione della fine del mondo.
Il filosofo, come lavoro separato dalle condizioni materiali, non riesce infatti a comprendere che l’Apocalisse è la macchina mitica che interpreta la crisi strutturale di un modello economico, non un impianto simbolico slegato dai processi produttivi.
Ed è proprio l’Apocalisse (90-100 D.C.) di Giovanni a fornircene la prova, fin dal titolo.
Oggi Il termine apocalisse viene tradotto come “rivelazione”, che nel linguaggio comune assume il significato di “profezia rivelata da Dio a Giovanni apostolo”, il che è solo uno del duplice significato del parola greca apokálypsis (ἀποκάλυψις), composta da apó (ἀπό, "da", usato come prefissoide anche in apostrofo, apogeo, apostasia) e kalýptō (καλύπτω, "nascondo", come in Calipso). Letteralmente quindi si dovrebbe tradurre come “[emersione] da ciò che è nascosto”, quindi “disvelamento”.
Se “rivelazione” è “disvelamento”, il testo di Giovanni può essere letto come una grammatica della crisi dell’ egemonia di una data forma di dominio: i simboli apocalittici non sono astrazioni metafisiche, ma forme ideologiche attraverso cui le classi subalterne vivono e rappresentano le loro condizioni reali.
Se accettiamo una lettura materialista storica, l’Apocalisse non appare più come un mero mito escatologico, ma come un linguaggio cifrato di resistenza, scritto da e per una comunità perseguitata. Ogni suo simbolo -la Bestia, Babilonia la Grande, il Cristo guerriero, il pianto dei mercanti- si dischiude allora come traccia delle contraddizioni storiche che attraversano i sistemi di potere quando questi entrano in crisi. Giovanni non descrive il futuro: analizza il presente con il medium del mito.
A titolo esemplificativo, la caduta di Babilonia traduce in simbolo la crisi mercantile dell’Impero Romano e allo stesso tempo non è solo quella Roma, ma l’invarianza del crollo del dominio mercantile:
“I mercanti della terra piangono e si dolgono per lei, perché nessuno compra più le loro merci:
merci d’oro, d’argento, di pietre preziose, di perle, di lino fino, di porpora, di seta, di scarlatto;
di ogni legno odoroso, di ogni oggetto d’avorio, di ogni oggetto di legno prezioso, di bronzo, di ferro e di marmo;
di cannella, di aromi, d’incenso, di mirra, di profumo, di vino, d’olio, di fior di farina, di grano, di buoi, di pecore, di cavalli, di carri,
di corpi e di anime umane.” (Apocalisse 18, 11:13)
”Corpi e anime di uomini” (greco: sōmata kai psychas anthrōpōn) testimonia l’invarianza dello sfruttamento pur nella variabile dei modelli economici: l’inserimento della “merce umana” all’interno della catena del valore dell’Impero Romano esprime la cosificazione del soggetto nei processi di estrazione valoriale.
Per non scadere in errati e antimaterialisti paragoni storici, bisogna sottolineare che la differenza tra il sistema imperiale romano e il capitalismo moderno è reale e non va banalizzata: il primo si fonda sulla schiavitù, il secondo sulla produzione di plusvalore. Ma entrambi condividono strutture profonde: alienazione, mercificazione, dominio ideologico, concentrazione del potere. L’Apocalisse coglie proprio questo: le forme del dominio cambiano, ma l’esperienza della sottomissione resta. E con essa, la crisi di un sistema che, pur nella sua apparente ipostasi, genera le contraddizioni che ne possono determinare la fine. È in questo senso che l’Apocalisse è un testo non solo storico, ma trans-storico: può essere letto come mappa simbolica ogni volta che un Impero entra in crisi.
Questa prospettiva, che nel marxismo occidentale viene colta praticamente solo da Ernst Bloch, è stata più volte affrontata dai movimenti di liberazione decoloniale, fin dalla lunga rivolta di Haiti (1791-1804) in cui gli houngan (sacerdoti voodoo) cristianizzati utilizzano il testo di Giovanni come profezia della lotta contro lo schiavismo francese; in seguito, la grammatica apocalittica come “lettura della crisi imperiale” è stata usata dal leader messianico congolese Simon kimbangu al teologo della liberazione brasiliano Leonardo Boff.
Ancor di più fa Allan Boesak, pastore e attivista anti-apartheid che scrive un testo, Comfort and Protest (1980), di esplicita interpretazione del Libro della Rivelazione non come un annuncio della fine del mondo né una consolazione mistica, ma come testo politico: “Apocalisse non è un libro per chi aspetta la fine del mondo, ma per chi vuole la fine dell’oppressione”. Babilonia è il sistema dell’apartheid, con il suo apparato legale, economico e militare; la Bestia è il culto del potere bianco che si fa idolo. Cristo è il condottiero dei martiri neri, dei resistenti che credono ancora nella possibilità di una redenzione storica. Boesak legge il testo “dal fondo”: dal punto di vista dei dannati della terra, come li avrebbe chiamati Frantz Fanon, che pure scrisse in un tono apocalittico laico e rivoluzionario: “La decolonizzazione è veramente una creazione dell’uomo nuovo”.
E oggi? Come Giovanni assisteva alla crisi di egemonia romana, oggi siamo di fronte a quella del regime unipolare statunitense, visione trasversalmente accettata anche dai suoi difensori e dai suoi falsi critici. Il Libro della Rivelazione, quindi, più che un elenco di visioni spaventose può essere nuovamente letto come una accurata descrizione delle fasi imperialiste delle economie all’emergere delle contraddizioni interne che determina questo periodo di guerra mondiale.
Andiamo a leggere i passi 9-13 di Apocalisse 17:
”Qui ci vuole una mente che abbia saggezza.
Le sette teste sono i sette colli sui quali è seduta la donna; e sono anche sette re.
I primi cinque sono caduti, ne resta uno ancora in vita, l'altro non è ancora venuto e quando sarà venuto, dovrà rimanere per poco.
Quanto alla bestia che era e non è più, è ad un tempo l'ottavo re e uno dei sette, ma va in perdizione.
Le dieci corna che hai viste sono dieci re, i quali non hanno ancora ricevuto un regno, ma riceveranno potere regale, per un'ora soltanto insieme con la bestia.
Questi hanno un unico intento: consegnare la loro forza e il loro potere alla bestia. “
I sette re rappresentano forse l’unica specificità storica di questo passaggio, chiamando direttamente in causa Roma. Il resto, proprio nella sua libertà interpretativa, fornisce una chiave metodologica di analisi di fase che può essere ri-attualizzata.
Recuperando le tesi della teologia della liberazione, la “bestia che era e non è più” diventa rappresentazione della Pax Americana, che “è ad un tempo l'ottavo re”, ovvero la nuova forma di dominio imperiale e “uno dei sette”, a testimonianza dell’eredità storica (di tipo sovrastrutturale) con l’Impero Romano.
Esattamente come ogni erede della Roma imperiale, da Sacro Romano Impero al terzo reich hitleriano, anche l’impero statunitense “va in perdizione”, ovvero non riesce a reggere il peso delle contraddizioni che esso stesso va a generare, e la nuova dottrina caotica della politica di Trump, un vero e proprio Nerone del terzo millennio, ce lo stanno testimoniando in questi giorni convulsi.
E infine, il segmento più oscuro: cosa sono le dieci corna? Chi sono i dieci re?
In questa fase storica, potrebbe essere interessante attribuire questa identità alle dieci tribù perdute di Israele.
Al rientro dalla cattività babilonese (ovvero intorno al 520 a. C.), gli Ebrei liberati che posero mano alla Riedificazione del Tempio appartenevano alle sole Tribù di Giuda, Levi e Beniamino, e della sorte delle altre la Bibbia non dà più notizia.
Le Tribù Perdute sarebbero dunque Ruben, Dan, Neftali, Gad, Aser, Issachar, Zabulon, Efraim e Manasse, ovvero nove ; si pensa che la formula Dieci Tribù abbia prevalso per il senso simbolico di globalità legato al numero dieci.
Precetto di fede dell’ebraismo, è che all’avvento dell’era messianica le dieci tribù perdute faranno ritorno in Israele e vi sarà la restaurazione dell’intero popolo ebraico.
Il sionismo ha da sempre questo progetto e, con la creazione dello “Stato di Israele” (1948), il tentativo di ricongiungere le tribù perdute è stato esplicitato talvolta anche manu militari, come durante l’Operazione Salomone (1991) in cui il Governo israeliano trasferì in Israele 14.500 ebrei etiopi. In tal senso, nella ideologia coloniale sionista c’è stato e c’è, soprattutto in alcune sue derive, il tentativo di costruire una forma di “accelerazione messianica” tra l’altro molto criticata, se non addirittura giudicata “eretica”, da un gran numero di comunità chassidiche.
Attenzione, però: sarebbe un errore pericoloso interpretare questa lettura in una chiave antisemita, come se la responsabilità fosse ascritta al popolo ebraico. Per eliminare ogni misinterpretazione e ogni equivoco, basta tornare alla lettura antimperialista dell’Apocalisse:
”Le dieci corna che hai viste sono dieci re, i quali non hanno ancora ricevuto un regno, ma riceveranno potere regale, per un'ora soltanto insieme con la bestia.
Questi hanno un unico intento: consegnare la loro forza e il loro potere alla bestia.”
Se interpretiamo gli USA come “la Bestia”, ogni responsabilità va ascritta alla sua hybris, eguale a quella di ogni impero. Sono infatti gli USA che, come i romani durante la distruzione del tempio di Gerusalemme (70 d. C.), commettono l’ “abominio della desolazione” (profezia di Cristo in Matteo 24,15), ovvero l’inserimento del comparto militare all’interno dello spazio del sacro.
La stessa fondazione dello Stato di Israele ultra-militarizzato invece che di un unico Stato palestinese in cui ebrei e arabi avessero tutti il diritto di vivere insieme e in pace, risulta essere una decisione di due monopoli “geopolitici” (USA e URSS) e non la responsabilità di un popolo piuttosto che un altro, tanto che non è peregrino con i “bravi cristiani” afrikaners sudafricani, a riprova che non esiste una “colpa intrinseca nei popoli” quanto le scelte stragiste dei poli imperialistici. E infatti i “dieci re” hanno la funzione di “consegnare la loro forza e il loro potere alla bestia”, in poche parole un proxy, una propaggine dell’Impero, e non certamente una manifestazione spontanea di rinascita di una popolazione.
Ancora una volta, bisogna stare molto attenti a intendere correttamente l’analisi materialista dell’Apocalisse: non una idealistica divisione fra “buoni” e “cattivi” ma la lettura deterministica dell’emersione di contraddizioni all’interno del dominio.
Il celebre filosofo Mark Fisher, in “Realismo Capitalista”, utilizza una frase attribuita a Zizek: “È più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo”.
Quello cui Zizek e Fisher non hanno pensato, è che ogni forma di egemonia reca in sè le basi dialettiche per il proprio superamento, cioè la propria “fine del mondo”.
Rileggere le escatologie passate non è quindi solo un esercizio sterile o un suggestivo tentativo di romanticizzare la fase corrente, ma un modo per intuire i prossimi passaggi di violenza convulsa di un dominio in fase terminale.
Gli imperi cadono sempre, prima o poi.